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Vivere al femminile

Ogni gruppo umano stabilisce ruoli e spazi, atteggiamenti e funzioni che considera più adatti agli uomini o alle donne. Si tratta di comportamenti che ogni individuo apprende durante la vita e che vengono trasmessi da diverse agenzie tra cui la famiglie e la religione.

In India la donna riveste una posizione ambigua. Da una parte il matrimonio è un elemento importante all’interno della società indu e l’elemento femminile messo in risalto, tuttavia la posizione della donna è veramente molto fragile. Molte organizzazioni hanno denunciato il fatto che in India sia piuttosto diffuso l’aborto selettivo in base al sesso. Ben poche famiglie sono felici di accogliere la nascita di una bambina, in quanto spetta alla famiglia della donna pagare la dote allo sposo e spesso questo esborso in denaro e beni getta sul lastrico una famiglia, soprattutto se non ricca o se le figlie sono più di una. Tuttavia, proprio l’abitudine al pagamento della dote fa sì che spesso le donne siano eliminate dai mariti fingendo incidenti domestici, in modo da potersi nuovamente risposare intascando una nuova rendita.

Al fine di poter controllare il comportamento femminile, gli indu non si astengono dall’usare tradizioni religiose: ad esempio, per liberarsi delle vedove, alle donne rimaste senza marito si chiede di imitare il comportamento della devota sposa Sati, che per essere fedele fino alla fine e gradita al marito si buttò sulla sua pira per non essere separata da lui.

Il Confucianesimo prevede una rigida gerarchia sociale in cui i figli sono sottomessi a padre e madre. Tuttavia, le donne sono importanti solo in quanto madri. In Cina, ove fino a poco tempo fa era permesso avere un solo figlio per coppia, la famiglia che non sarà stata in grado di avere un figlio maschio non potrà ricevere offerte per gli antenati; per questo motivo si ricorre all’aborto selettivo.

L’infibulazione

Tra le mutilazioni genitali femminili l’infibulazione indica tutte le pratiche tradizionali in cui vi è l'asportazione o l'alterazione di una parte dell'apparato genitale esterno della donna. Queste pratiche, che sono soprattutto un'usanza africana, rientrano nella circoncisione femminile, usata tradizionalmente da molte culture. L’infibulazione è un rituale d’iniziazione molto cruento: gli interventi sono ancora oggi effettuati senza anestesia, in un territorio vasto ed eterogeneo, che coinvolge culture e religioni diverse. Durante e in seguito a queste mutilazioni, a causa delle ferite gravi riportate o all’uso di strumenti infetti, molte donne muoiono o hanno pericolose complicazioni sanitarie e per tutta la vita avranno disturbi psicologici. L'origine dell'infibulazione non è islamica perché non è prescritta dal Corano, ma con il tempo l'Islam ha fagocitato la tradizione indigena, al punto che oggi ciò che era una pratica culturale è ritenuto erroneamente una regola coranica: ciò ha fatto sì che queste pratiche si diffondessero fuori dall’Africa e oggi sono praticate anche nella Penisola Arabica, nel Medio Oriente, in Malesia ed Indonesia. Non tutti i musulmani praticano l’infibulazione – in Arabia Saudita, Iraq, Iran, Algeria, Marocco, Tunisia e Libia non viene compiuta – mentre invece la praticano molti animisti e cristiani in Africa oltre agli ebrei dell’Etiopia. Gli immigrati hanno portato l’infibulazione sia negli Stati Uniti che in Europa e quindi anche in Italia. Certamente la fede islamica si è mostrata più tollerante nei confronti dell’infibulazione, che invece è stata più contrastata da parte cristiana.

La donna nell’Islam

I giuristi, per precisare e commentare il ruolo delle donne nell’Islam, hanno a disposizione numerosi versetti del Corano ed è per questo che alcuni usi e costumi, considerati restrizioni esagerate dagli occidentali, sono ancora ben fermi nella cultura e nella tradizione islamica. Il Corano afferma che la donna è stata creata da una costola di Adamo (IV,1; VII, 189; XXXIX,6) e che il suo sangue mestruale ha il potere di rendere impuri e perciò inadatti alla preghiera. Perciò uomini e donne debbono restare rigidamente separati in moschea. Le donne mestruate non possono digiunare e per questo sono costrette a interrompere il digiuno del ramadan, comportamento che le rende inferiori agli uomini. La testimonianza di una donna vale la metà di quella di un uomo ed alcuni giungono persino a rifiutarla.

Sempre sotto tutela

La posizione delle donne nell’Islam è quanto mai problematica. Durante la sua vita la donna musulmana non raggiunge mai l’indipendenza e deve sottostare alla tutela di un maschio della famiglia. Prima del matrimonio la gestione della sua vita sarà affidata al padre o al fratello maggiore o, in mancanza di questi, allo zio paterno. Dopo il matrimonio, dovrà sottostare alle decisioni del marito. In pubblico una donna musulmana non può stringere la mano ad un uomo che non sia della famiglia né fermarsi a parlare da sola con lui. Inoltre la donna islamica non può decidere autonomamente di sposarsi, ed è costretta ad accettare le eventuali mogli del marito. Il Corano prescrive che le donne le donne siano vestite in modo decoroso e non mostrino la loro bellezza in pubblico. Ciò ha fatto sì che la religione islamica imponesse l’uso del velo alle donne, ufficializzando una tradizione già diffusa precedentemente in tutta la regione. Questa regola viene diversamente interpretata dalle varie comunità dando origine a indumenti dalle diverse fogge: dal semplice foulard sino al chador integrale delle donne afghane. Mentre molte donne islamiche possono iscriversi all’università, a molte altre è impedito frequentare la scuola.

Donna e velo nella società islamica

L’uso di un copricapo fatto secondo la foggia del luogo non ha origine religiosa, ma antropologica. Gli uomini sono considerati superiori alle donne, indipendenti, mentre le donne, a causa della sessualità e delle mestruazioni, sono dipendenti per tutta la vita. Le donne per riscattarsi davanti alla società possono seguire la via della modestia espressa attraverso l’ossequio attribuito a tutti i maschi della famiglia. Quando all’interno di una famiglia nasce un maschio, il padre si mostra orgoglioso dell’evento, ma non così felice si mostra per la nascita di una figlia (è meglio che niente!). La presenza di un figlio maschio assicura la discendenza ed aumenta il potere della famiglia. Anche per la madre la nascita di un figlio maschio può essere un sicuro investimento e un’assicurazione sulla vita futura. In caso di vedovanza o di divorzio della madre egli la può accogliere in casa, mentre una figlia, che generalmente vive lontana da casa e che non può disporre liberamente della propria vita, non può decidere di prestare aiuto alla propria madre (anche se non è detto che il marito non acconsenta). La nascita di nuovi figli è un fatto ritenuto importante per la società islamica. Tuttavia la sessualità femminile, associata alle mestruazioni, è valutata negativamente. Questo è il fattore principale che impedisce alla donna di essere indipendente. L’uso del velo è un importante strumento di comunicazione per rendere visivamente partecipe tutto il gruppo che la donna aderisce al codice della modestia, attraverso l’occultamento della sessualità. Le donne si velano davanti a certi uomini (fratelli maggiori, padri, anziani), ma non certi altri come il marito e i figli. Le donne possono non indossare il velo quando sono anziane e non hanno più le mestruazioni, se sono vedove o bambine prima della pubertà. Il velo è un elemento che contribuisce alla dimensione estetica della costruzione della figura femminile e differisce per forma, tipologia, uso. Il velo rappresenta lo status della donna prima e dopo il matrimonio. Oggi, secondo l’uso islamista, è diventato uno strumento per rendere riconoscibili le donne che aderiscono alla religione islamica. Molte ragazze all’Università usano il velo per richiedere il rispetto della loro persona che vogliono sia apprezzata solo per le doti intellettuali. L’uso del velo può anche essere considerato una resistenza all’occidentalizzazione e una forma di protesta nei confronti degli Stati Uniti d’America.

Testimonianze: il velo in Iran

L’invito a portare il velo fu la prima avvisaglia che la rivoluzione avrebbe potuto sacrificare le sue “sorelle”, appellativo che si erano date le donne impegnate nella lotta per rovesciare il governo dello scià. Provate a immaginare la scena: pochi giorni dopo la vittoria, un uomo di nome Fathollah Bani Sadr fu nominato supervisore provvisorio del ministero di Giustizia. In una mattina chiara e ventilata, alcuni colleghi e io, ancora pieni d’orgoglio, scendemmo a congratularci con lui. Entrammo ordinatamente nella stanza e gli rivolgemmo calorosi saluti e felicitazioni. Poi, lo sguardo di Bandi Sadr cadde su di me. Mi aspettavo che mi dicesse quanto aveva significato per lui che una donna giudice, impegnata come me, si fosse schierata dalla parte della rivoluzione. Invece domandò: «Non pensa che, per rispetto al nostro amato ayatollah Khomeini, che ha onorato l’Iran con il suo ritorno, sarebbe meglio che si coprisse la testa?». «Non ho mai indossato il velo in tutta la mia vita», risposi, «e sarebbe ipocrita cominciare proprio adesso». «Allora non sia ipocrita e lo indossi come atto di fede!» ribattè lui, come se il problema fosse già risolto. «Scusi non è così semplice», insistetti. «Non dovrei essere costretta a indossare il velo, se non ci credo, e non ho intenzione di metterlo». «Ma non si rende conto della situazione?» chiese, alzando il tono della voce. «Sì, ma non voglio fingere di essere qualcosa che non sono», ribadii. Poi me ne andai. C’era un’atmosfera quasi teatrale in quei giorni, ma qualcosa catturava ancora di più la mia attenzione: le voci che si rincorrevano nell’ambiente della magistratura, dicerie così terribili che ogni volta che le sentivo mi mancava il respiro e dovevo fermarmi a prendere aria per inghiottire. Si diceva che l’Islam avrebbe bandito le donne dai posti di giudice. Cercavo di metterla sul ridere: avevo tanti amici rivoluzionari, e mi dicevo che quelli erano legami forti. Sarebbe bastato dire, per far sapere che cosa avrebbe significato la mia destituzione, che ero la donna giudice più eminente del tribunale di Teheran. Un giorno, il ministro provvisorio della giustizia Bani Sadr mi convocò e suggerì gentilmente che mi trasferissi all’ufficio investigativo del ministero. Era un incarico prestigioso, ma temevo che la mia resa avrebbe avuto troppe implicazioni e che tutti avrebbero cominciato a pensare che le donne non potessero più accedere al rango di giudice, così rifiutai. Bani Sadr mi mise in guardia, spiegandomi che c’era la possibilità che fosse istituita una commissione di epurazione e che avrei potuto essere retrocessa alla mansione di assistente giudiziario. «Non me ne andrò mai volontariamente», risposi.

(Shirin Ebadi, Il mio Iran, SperlingKupfer Editori, Milano 2006)

Sono figlia di un musulmano. Mio padre non mi ha fatto mai mettere il velo. Né a me, né a mia madre. Nemmeno alle mie zie iraniane che, anzi, negli anni Settanta seguivano la moda italiana e francese, avevano unghie laccate di rosso e pettinature che imitavano le dive del cinema. A impormi il velo, l’Hejab, per la prima volta sono stati gli ayatollah iraniani nel 1997, quando sono andata a trovare la nonna paterna molti anni dopo la rivoluzione. Khomeini rese il velo obbligatorio il 6 marzo 1979, dapprima nei luoghi di lavoro, poi in tutti gli spazi pubblici. Un passo indietro rispetto alla legge del 1936 con cui reza Shah vietò, invece, l’hejab. Lo Scia voleva dimostrare, al mondo intero e al suo popolo, che l’Iran aveva intrapreso la via della modernizzazione. Il velo è un simbolo. I fondamentalisti lo usano come slogan. Nessuno ricorda che nei primi quindici anni dalla Rivelazione, al tempo di Maometto, le musulmane ne hanno fatto tranquillamente a meno. Dopo gli ayatollah a farmi mettere il velo è stato il padre di mio figlio. Non è un fondamentalista, con la barba lunga ed incolta, ma un chirurgo romano di indubbio fascino, biondino e con gli occhi verdi. Ci siamo conosciuti all’aeroporto di Fiumicino, eravamo diretti in Yemen, dove lui lavora da anni all’ospedale tedesco e collabora con la Mezzaluna rossa. Sono stata sua ospite, in un vecchio quartiere della capitale Sanaa, e il velo doveva servire a suscitare rispetto tra i vicini. È stato nella splendida Sanaa che mi sono lasciata convincere ad avvolgermi il capo in una leggera sciarpa di cotone che metto sempre in valigia quando viaggio in Medio Oriente. Un hejab verde, del colore riservato al profeta e alla sua famiglia, dono di mia zia Malieh.

(Farian Sabahi, Islam: l’identità inquieta dell’Europa, Il saggiatore, Milano 2006)

La poligamia

La poligamia nel mondo islamico è lecita e prevista dal Corano (Sura “delle donne”, 3) anche se è previsto che l’uomo che tema di non essere giusto con le sue mogli (e cioè non sia in grado di riservare a tutte le medesime attenzioni) debba tenerne una sola. La poligamia può essere un grosso problema in Occidente dove la pratica è ritenuta contro la legge civile. Tuttavia è noto che matrimoni poligami esistono anche in Italia. L’islamico, dopo aver contratto un primo matrimonio, può fare ritorno al Paese d’origine, dove la pratica è consentita, e procedere ad una seconda unione. All’uomo è consentito ripudiare la moglie.

Le donne nell’Ebraismo

Le donne ebree godono di uno statuto diverso a seconda della comunità a cui appartengono. Mentre ci sono donne ebree molto emancipate, in alcune comunità strettamente osservanti alla donna è riservato uno statuto molto ristretto. All’interno della parentela ebraica rientrano sia i parenti della donna quanto quelli dell’uomo; tuttavia un individuo può dirsi ebreo solo se nasce da una donna ebrea. Diventa perciò importante controllare le donne, evitando che contraggano matrimoni misti. Anche per la religione ebraica la testimonianza di una donna vale la metà di quella di un uomo. Il matrimonio è considerato un contratto sociale e la donna può essere ripudiata. Per il marito è piuttosto semplice divorziare, mentre non sempre lo è per la moglie. Durante il ciclo mestruale la donna è considerata impura: questa impurità deve essere eliminata con un bagno purificatore al miqweh. Le donne possono entrare (non hanno nessun obbligo) in sinagoga, ma possono accedere soltanto alle zone loro riservate. Anche quando si celebrano riti a cui partecipano i propri figli, come ad esempio il bar mitzvah, le donne hanno la possibilità di assistervi rimanendo nelle zone loro assegnate. Solo alcune comunità riformate permettono alla donna di diventare rabbino.

Il Dio della Bibbia è uomo o è donna?

Il Dio che ci viene presentato dall’Antico Testamento è sicuramente una divinità forte presentata con caratteristiche maschili. Dio è creatore, Signore, re, giudice, pastore. Sono queste tutte funzioni caratteristiche dell’elemento maschile. Inoltre Dio nei libri profetici è presentato come un marito e un fidanzato geloso della sua sposa, Israele. Anche il Nuovo Testamento trasmette l’idea di un Dio maschile: Gesù parla di Dio come Padre e dice di sé di essere suo Figlio. Tuttavia, come ebbe a dire Papa Giovanni Paolo I, Dio non è solo Padre, ma è anche Madre. Molti sono i passi biblici che, già nell’Antico Testamento, fanno intravedere atteggiamenti riconducibili all’universo femminile. È più simile ad una donna la divinità che segue Israele così come si fa con un bimbo che per la sua tenera età sia ancora malfermo sulle gambe ed è certamente legato alla sfera femminile ogni riferimento alla misericordia.

Le donne nel Cristianesimo

Leggendo i Vangeli scopriamo che Gesù vive il rapporto con le donne in modo molto diverso da quello del suo tempo. Certamente non troviamo nessuna dichiarazione esplicita che riguardi la dignità della donna, ma questa diventa evidente dagli atteggiamenti concreti che Gesù vive con i personaggi femminili che via via incontra: la samaritana, le sorelle di Lazzaro, Maria di Magdala, la peccatrice, l’emorroissa, le donne che aiutano concretamente Gesù e i discepoli. Anche le donne vengono chiamate da Gesù. Paolo nella Lettera ai Galati si esprime in questo modo: «Non c'è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Il Cristianesimo non fa nessuna differenza tra uomini e donne, bensì riconosce a tutti la medesima dignità. Un tempo anche nelle chiese cattoliche era prevista la separazione tra uomini e donne, a cui si riservavano appunti spazi separati. Le donne inoltre potevano entrare in chiesa solo a capo coperto.

Oggi le donne partecipano a vario titolo alla vita della Chiesa: molte donne sono catechiste o fanno servizio in vari settori ecclesiali, in particolare quelli che si dedicano alla cura della persona; alcune sono inserite nelle Facoltà teologiche con incarichi di insegnamento. La Chiesa non riconosce alla donna la possibilità di essere ordinata sacerdote: tale decisione è motivata dal fatto che Gesù non ha ordinato donne, ma solo uomini. Da qualche tempo però nella Chiesa si sente l’esigenza di riconoscere un ruolo e una funzione più importanti alla donna: l’operato degli ultimi papi lo dimostra.

Papa Giovanni Paolo II, che ha ribadito l’impossibilità per la Chiesa di consacrare donne sacerdoti (Lettera apostolica Ordinatio Sacerdotalis, 22 maggio 1994), il 19 ottobre del 1998 nominò santa Teresa di Lisieux “dottore della Chiesa”. Inoltre, durante il Giubileo del 2000, mentre stava facendo pubblica ammenda per i peccati commessi dalla Chiesa, inserì anche quelli commessi contro la dignità delle donne. Il 10 luglio 2000 inviò una lettera che idealmente era destinata a ogni donna: in essa si chiedeva perdono per tutte le ingiustizie e le violazioni ai diritti, nonché per la denigrazione che nella storia le donne avevano dovuto subire.
Prima di diventare Papa Benedetto XVI, il cardinale Joseph Ratzinger, in qualità di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, nel luglio del 2004 inviò ai vescovi un documento che prendeva in considerazione il problema del “femminismo radicale” (Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo, Roma, 31 maggio 2004). Da papa, il 7 ottobre 2012 nominò “dottore della Chiesa” santa Ildegarda di Bingen.
Papa Francesco ha parlato spesso del ruolo della donna nella Chiesa (Evangelii gaudium 103-104). Ha ribadito che alle donne non può essere amministrato il sacramento dell’ordine, precisando però che il fatto di poter amministrare i sacramenti non rende i sacerdoti più degni e più importanti di loro. Allo stesso tempo ha invitato i teologi ad esplorare altre vie per riconoscere alle donne un ruolo sempre più importante all’interno della Chiesa. Le donne dovrebbero infatti essere inserite con ruoli di responsabilità là dove si assumono decisioni fondamentali per la vita della Chiesa.