Perché il male? Perché la morte?

Il problema del male

L’uomo ha tentato a più riprese di spiegare il problema del male. Quasi tutte le religioni hanno provato a dire quale senso abbia e quale ne sia l’origine. Per il cristiano, il male è un problema gravoso perché la sua esistenza sembra contraddire l’idea di un Dio buono, misericordioso e vicino all’uomo, amorevole nei suoi confronti, a lui prossimo come solo un padre può esserlo. Perciò, anche se esistono diversi tipi di male e tanti di questi dipendono proprio dall’agire dell’uomo, sembra che il cristiano si senta a disagio davanti alle problematiche che il male solleva. Sembra addirittura che il male sia una realtà che preceda l’uomo e che abbia potere su di lui. Il male, in realtà, è la peggiore forma d’inquinamento di cui l’uomo possa fare esperienza. Così come lo smog o il fumo passivo, anche il male viene «respirato» da tutti e coinvolge tutti. Il male tocca l’uomo sotto molti aspetti. Tutti noi conosciamo il disagio che si prova in una situazione imbarazzante, il dolore causato dalle parole di chi vuole ferirci, la violenza fisica (uno schiaffo, un pugno, uno spintone) che può spingersi fino all’omicidio, la sofferenza per una malattia che può portare alla morte. Il male assume anche il volto dello sfruttamento, della violenza, della guerra, della schiavitù, dello stupro, dell’inquinamento e depauperamento delle risorse naturali. Esiste anche il male morale, che spesso si accompagna ai mali che abbiamo elencato.

Il male nell’epoca contemporanea

La fiducia nelle sempre maggiori capacità della scienza e della tecnica ha fatto sì che non si chieda più a Dio il perché del male, ma si pensi che sia l’uomo a dover risolvere il problema. E poiché l’uomo cerca di comprendere il funzionamento della realtà, ritiene che per sconfiggere il male sia sufficiente conoscere il meccanismo che regola i vari ambiti. Proprio il XX secolo ha offerto, durante i due spaventosi conflitti mondiali, manifestazioni imponenti del male, come le bombe atomiche lanciate sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki nell’agosto del 1945 e lo sterminio di milioni di ebrei nella Shoah, che portò a chiedersi come si potesse parlare di Dio dopo Auschwitz. Dov’era Dio in quei momenti? Avvenimenti più vicini a noi, come l’attentato alle Torri Gemelle di New York (11 settembre 2001) e il dilagare del terrorismo in molti Paesi, hanno posto davanti agli occhi di tutti quali possa- no essere le implicazioni del male incarnato dal fanatismo religioso. Per non parlare delle recenti «pulizie etniche» nei Paesi slavi e delle guerre fratricide in Africa (Uganda, Congo, Sudan, Eritrea, Somalia…) e in molti Stati dell’Asia.

Parlare di morte oggi si può?

La morte non è soltanto un fatto biologico, ma deve essere considerato un evento culturale con una dimensione pubblica, sociale e rituale. Un tempo la morte era spesso compagna di viaggio della persona, che imparava a conoscerla nelle esperienze di parenti e amici che morivano di malattia o nelle frequenti guerre. La morte e le esequie facevano parte dell’esperienza quotidiana. Le lunghe veglie funebri ne erano un esempio. A partire dalla riforma introdotta da Napoleone, che vietava di seppellire i defunti nelle chiese, la morte è stata progressivamente allontanata dagli spazi cittadini. Oggi si cerca di nascondere l’esistenza della morte, come se non la si volesse vedere: e così la maggior parte delle persone muore in ospedale, mentre un tempo si moriva in casa, circondati dall’affetto dei familiari. Per contro assistiamo alla spettacolarizzazione delle esequie in occasione della morte di una per- sona famosa (pensiamo ad esempio ai «funerali mediatici» di Lady Diana) o a eventi riportati e drammatizzati dai media, come le uccisioni in onda nei notiziari o quelle rappresentate nelle fiction. Mentre un tempo era normale pregare per essere liberati da una morte improvvisa, oggi le persone preferiscono passare senza accorgersene dal sonno alla morte. Anche se il progresso medico e scientifico ha fatto sì che la morte si sposti più avanti negli anni, in ogni caso essa è vista come una sconfitta. Forse l’uomo moderno non vuole pensare alla morte perché è troppo attento a inseguire il mito dell’eterna giovinezza: qualcuno ha definito questa l’epoca del BENESSERISMO. Nonostante il tentativo di fuggire l’idea della morte o di dare risposte riduttive, l’atteggiamento maturo dell’uomo è quello di chi vive la vita di tutti i giorni sapendo di dover morire. Di fatto, l’uomo che si priva di questa riflessione, perché la ritiene troppo opprimente, rinuncia a diventare se stesso. La morte è dunque la compagna di viaggio di ogni uomo, e l’accettazione della morte un segno di maturazione personale.