Il nuovo ruolo del papato

L’impegno per la pace in un tempo di guerra

Proprio mentre si stava già scatenando il primo conflitto mondiale, nell’estate del 1914 il conclave eleggeva in Roma Giacomo Della Chiesa, che prese il nome di papa Benedetto XV. Gran parte del suo pontificato si svolse durante il terribile conflitto ed egli fu costantemente impegnato da un lato a condannare la guerra e dall’altro a lavorare per cercare in ogni modo le vie della pace fra i vari contendenti. Benedetto lo fece con grande equilibrio, umiltà e pazienza, con straordinaria forza d’animo e coraggio, con l’obiettivo costante e ultimo di costruire la pace. Le sue espressioni di condanna furono estremamente esplicite e anche di grande profondità di veduta. Restano famose alcune di esse: la guerra «è il suicidio dell’Europa» (4 marzo 1916), «la più fosca tragedia della follia umana» (4 dicembre 1916), «un’inutile strage» (1 agosto 1917). Ma nonostante la loro appassionata forza e autorevolezza rimasero inascoltate, come pure tutte le proposte di mediazione e di composizione politica, territoriale e diplomatica proposte dalla Santa Sede. Che tuttavia, con la sua azione, si dimostrò autorità morale di altissimo profilo, e di evidente equilibrio e imparzialità, interessata solo al concreto autentico bene delle persone e alla difesa del valore della vita umana. Sull’esempio del pontefice, moltissimi vescovi delle varie nazioni in guerra si prodigarono in modo esemplare a difesa delle popolazioni affidate alla loro cura pastorale.

Il confronto fra Chiesa e totalitarismi

Nel corso del Novecento, la Chiesa si è dovuta confrontare con diversi regimi totalitari, che si sono affermati soprattutto in Europa. Possiamo identificarne alcuni importanti caratteri comuni:
• il valore dato alla nazione, che assume un’importanza assoluta;
• la completa subordinazione dell’individuo allo Stato;
• la conseguente significativa riduzione, o soppressione, delle più importanti libertà personali, civili, politiche, religiose;
• l’affermazione di discriminazioni, violenze e persecuzioni nei confronti di ogni tipo di dissidenti;
• la soppressione della libertà di pensiero;
• l’esaltazione della persona del capo, dalla cui volontà tutto viene fatto dipendere e derivare;
• il condizionamento di ogni forma della vita personale, pubblica e privata, familiare e sociale;
• la messa ai margini, e in alcuni casi la persecuzione, di ogni forma di fede, di culto o di esperienza religiosa, in quanto considerata concorrente e quindi nemica della «religione dello Stato, del partito, del Capo».

Governi nazionali e Santa Sede

In forme diverse, ma in tempi analoghi, queste furono le condizioni con le quali dovettero confrontarsi la Chiesa di Roma e le comunità cristiane nell’Italia di Mussolini, nella Spagna di Franco, nella Germania di Hitler, nella Russia di Stalin e in tutte quelle altre nazioni dove, anche solo per un tempo breve, si affermarono regimi analoghi o dipendenti da quelli fascista, franchista, nazista o stalinista.
In tutto questo periodo e a confronto con tutte queste realtà, la Chiesa cercò di stabilire una qualche relazione possibile, anche in forma di compromesso, al fine di garantire un minimo di sopravvivenza e di autonomia alle comunità cristiane: ciò avvenne principalmente attraverso l’istituto politico-diplomatico del concordato fra il governo nazionale e la Santa Sede. In certi casi, almeno nei primi tempi di affermazione del regime (come in Italia fino al 1929, anno della firma dei Patti Lateranensi), questo poté sembrare come il male minore rispetto ad altre forme di governo dichiaratamente ostili alla Chiesa, e sembrò quasi potersi stabilire qualche forma di collaborazione. Ma i regimi totalitari non mancarono di rivelare alla fine, più o meno rapidamente, il loro vero volto e tutta la loro ostilità profonda nei confronti della religione, della fede, della Chiesa, e la loro natura violenta, liberticida, totalmente estranea ai principi del Vangelo.

La condanna dei regimi totalitari

Talvolta la Chiesa evitò, fin quando possibile, le condanne più severe nei confronti dei regimi proprio per evitare che alle comunità cristiane locali fossero inflitte maggiori sofferenze, violenze o persecuzioni: tuttavia le dichiarazioni del Magistero fecero sempre esplicito riferimento alla condanna di quelle mentalità, di quei princìpi e di quelle azioni che caratterizzarono proprio il governo dei regimi totalitari.
Nei lunghi anni della seconda guerra mondiale, la Chiesa di Roma operò da un lato per provvedere in ogni modo alla difesa dei diritti delle popolazioni tutte e delle comunità cristiane diversamente minacciate o colpite dai regimi e dalle conseguenze del conflitto; dall’altro intensificò gli sforzi diplomatici, attraverso tutti i possibili canali, per cercare di giungere il più rapidamente possibile al ristabilimento della pace. La persona e l’incolumità stessa del pontefice Pio XII furono in più di un’occasione seriamente in pericolo.
Alla fine prevalsero le forze militari e ideali delle democrazie occidentali che, insieme alla Russia di Stalin, furono artefici della vittoria sul nazismo e sul fascismo.

Il Concilio Vaticano II

Dopo la fine del secondo conflitto mondiale si aprì una nuova fase della storia, in cui andarono definitivamente in crisi gli imperi coloniali, si affermarono le due super potenze mondiali degli Stati Uniti d’America e dell’Unione Sovietica, entrarono in gioco molte nuove nazioni in Africa e in Asia, si definirono nuovi schieramenti politici, nuovi stili economici, nuove mentalità e nuove culture. Uno scenario globale sul quale si affacciavano come protagonisti nuovi popoli e antiche nazioni (come l’India e la Cina), le masse dei giovani, le donne e dove stavano cambiando rapidamente le istituzioni della famiglia e dell’educazione, della politica e del lavoro.
Leggendo e interpretando profeticamente i segni dei tempi, papa Giovanni XXIII, eletto nel 1958, decideva di convocare a Roma un nuovo grande Concilio ecumenico, il Vaticano II, che iniziò nella Basilica di San Pietro l’11 ottobre 1962 per concludersi tre anni dopo, nel dicembre 1965.
Al Concilio parteciparono quasi tremila «padri conciliari», dei quali più di 2500 vescovi con diritto di voto, e quasi cinquecento fra teologi, esperti, rappresentanti degli ordini religiosi, e rappresentanti delle diverse confessioni cristiane separate da Roma e invitate dal pontefice in veste di osservatori. Nessun concilio aveva mai visto prima radunati insieme tanti capi delle comunità cristiane e tanto fermento di discussione e di scambio di idee.
Il Concilio fu convocato per riflettere sul mondo che era cambiato e stava ancora cambiando e sulla necessità di ridefinire come la Chiesa dovesse attrezzarsi per svolgere la sua missione, portando il messaggio della salvezza a tutte le genti. Il Concilio, con uno straordinario lavoro, ripensò e ripropose tutti i contenuti fondamentali della missione e dell’azione ecclesiale.
Papa Giovanni XXIII, già gravemente malato sin dal 1962, moriva nel giugno del 1963; dopo un breve conclave Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano, venne eletto papa con il nome di Paolo VI. Egli continuò con vigore la direzione dei lavori del Concilio, che produssero un gran numero di documenti importanti.
L’enorme lavoro del Concilio sarebbe entrato a poco a poco a rinnovare, a innervare, a educare le nuove generazioni di credenti.
Negli anni del suo pontificato, Paolo VI ha cercato instancabilmente di testimoniare le scelte del Concilio e di annunciare il Vangelo in forme e stili nuovi: è stato il primo pontefice a compiere un pellegrinaggio in Terra Santa; il primo a parlare alla Assemblea delle Nazioni Unite; il primo a iniziare a ricomporre, con lo storico abbraccio al patriarca Atenagora, lo scisma millenario con le Chiese d’Oriente; il primo a compiere lunghi e impegnativi viaggi apostolici nel mondo.
Dopo la sua morte nell’agosto del 1978, il brevissimo e seppur significativo pontificato di Albino Luciani, papa Giovanni Paolo I, durò appena trentatré giorni.
A seguire, nell’«anno dei tre papi», ci fu l’elezione di un cardinale polacco, Karol Wojtyła: il primo papa non italiano dopo oltre quattro secoli e mezzo assunse il nome di Giovanni Paolo II.

Il lungo pontificato di Wojtyla

L’elezione di Wojtyła fu un segno dei profondi cambiamenti apportati dal Concilio. L’eletto era il più «giovane» nel panorama dei porporati e dei papi recenti, avendo infatti solo 58 anni; non era un «uomo di curia», provenendo da una Chiesa fedelissima a Roma ma lontana, «di frontiera» e perseguitata dai regimi comunisti; era stato operaio e attore, animatore di giovani e scrittore di opere teatrali, oltre che pastore anticonformista. Giovanni Paolo II stupì tutti con il suo stile affabile e coinvolgente, con l’intelligente passione delle sue parole, con il suo immediato e dichiarato anticonformismo: rifiutò la cerimonia di «incoronazione», sostituita da un’eucaristia inaugurale di pontificato. Raggiunse le menti e i cuori di moltissimi, credenti e non credenti, con l’appello del suo primo discorso ufficiale: «Non abbiate paura… aprite, anzi, spalancate le porte al Cristo!». Personalità di straordinario carisma e di eccezionali capacità comunicative e doti pastorali, segnò profondamente con le sue parole, con il suo magistero, con i suoi gesti il tempo di una Chiesa che stava cambiando: una Chiesa che volle giovane con i giovani, fedele alla Tradizione, aperta al servizio di chi nel mondo ha più bisogno, impegnata con coraggio nell’annuncio del Vangelo.
Durante il suo lunghissimo pontificato – segnato nei suoi 27 anni anche da eventi drammatici come l’attentato in Piazza San Pietro del 1981 e la sua dolorosa malattia affrontata con indomito coraggio – Giovanni Paolo II viaggiò instancabile in ogni angolo del mondo, incontrando giovani e anziani, malati e perseguitati, società avanzate e nazioni in via di sviluppo. Contribuì indirettamente, ma significativamente, alla fine del regime filosovietico in Polonia, alla caduta del Muro di Berlino, alla fine del comunismo in Unione Sovietica.
Intuendo l’importanza delle giovani generazioni, istituì nel 1986 le Giornate Mondiali della Gioventù, che con cadenza regolare si celebrano da allora nelle diverse zone del mondo.
Nello stesso anno 1986 visitò la Sinagoga di Roma, primo papa – dopo san Pietro – a incontrare ufficialmente capi della fede israelita, parlando e pregando insieme, e ponendo termine a secoli di incomprensioni e di reciproche esclusioni.
Sempre in nel 1986 convocava ad Assisi, per un incontro di preghiera dedicato alla pace, tutti i capi delle principali confessioni cristiane e delle religioni del mondo, con l’unico obiettivo di invocare il dono della pace e anche per maturare mentalità e iniziative concrete capaci di promuoverla.
Incontrò, senza cedere a compromessi, capi di Stato e di governo, rivendicando sempre il diritto di annunciare il Vangelo e di difendere i diritti degli ultimi e di servire la verità.
Quando, dopo molte sofferenze di una lunga malattia (sopportata con esemplare accettazione della volontà di Dio) Giovanni Paolo II morì, il 2 aprile 2005, suscitò un profondo cordoglio nel mondo intero. Si calcola che ai suoi funerali abbiano partecipato, stipate nella Piazza San Pietro, in via della Conciliazione e in tutto il Borgo Pio circostante il Vaticano, non meno di due milioni di persone, oltre a duecento delegazioni di nazioni di tutto il mondo. Durante l’omelia più volte risuonò il grido di «Santo subito». E rapidamente il pontefice poté essere elevato agli onori degli altari: proclamato beato nel 2011 da papa Benedetto XV, è stato dichiarato santo nel maggio 2014 da papa Francesco. Giovanni Paolo II ha guadagnato alla Chiesa cattolica nuova considerazione e nuovo apprezzamento da parte di credenti e di non credenti. Il suo pontificato ha mostrato quanto concreto fosse il rinnovamento postconciliare, e anche quale nuovo autorevole ruolo di altissimo magistero spirituale fosse universalmente riconosciuto al papato romano: un ruolo capace di condizionare positivamente scelte e orientamenti non solo religiosi e spirituali, ma anche politici e culturali.

Le sfide globali del nuovo millennio

Il rinnovamento nella Chiesa continua, non senza difficoltà, ma con significativi passi in avanti. La Chiesa deve affrontare con coraggio le nuove impegnative sfide del terzo millennio della sua storia, che non appaiono meno impegnative di quelle del passato.
L’immediato successore di Giovanni Paolo II è stato il cardinal Joseph Ratzinger – uno dei più stretti collaboratori di Wojtyla – che ha assunto il nome di Benedetto XVI: ha governato la Chiesa per circa otto anni, sino al febbraio 2013, quando ha deciso di dimettersi riconoscendo che l’anzianità non gli consentiva più di svolgere il suo ministero. È stato il primo papa – dopo Celestino V, a fine Duecento – a compiere questo gesto di coraggio, che gli valse l’ammirazione del mondo cattolico e di molti non credenti.
Il conclave subito convocato ha eletto, l’11 marzo, l’arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio, gesuita, nato da una famiglia di origini piemontesi. Per dare un segnale di discontinuità e per indicare il programma del suo pontificato, Bergoglio sceglie per sé il nome di Francesco. Sin dalle sue prime parole il pontefice dimostra di volersi rivolgere direttamente alle persone e per questo sceglie di essere il più vicino possibile, anche fisicamente, alla gente. Inaugura un nuovo stile di pontificato e fa del servizio ai poveri e agli ultimi uno dei cardini della sua azione apostolica. Egli spesso ha dichiarato che la Chiesa deve essere vicina a chi fugge dalle guerre e dalle violenze così come a coloro che vivono ai margini della società. Per dimostrare anche concretamente le sue parole, Francesco ha baciato i piedi ad ammalati di AIDS, immigrati, donne, non credenti.
Al di là e oltre la personalità forte e ammirata degli ultimi pontefici, è nell’azione e nella vita quotidiana che la Chiesa si impegna ogni giorno a rinnovarsi nella continuità, facendo tesoro della Tradizione e degli insegnamenti del Magistero, ma anche impegnandosi a entrare nella miglior sintonia possibile con le società e le culture del XXI secolo.
Alcuni temi appaiono fondamentali, a livello globale, sia per il «secolo presente» sia per il futuro prossimo e remoto delle generazioni che verranno.
In primo luogo la salvaguardia dell’ambiente, messo sempre più in grave pericolo.
Non meno grave, sempre urgente e importante è il tema della costruzione della pace. Globalmente, e anche molto di recente, il romano pontefice ha parlato di «terza guerra mondiale a pezzi», mettendo in guarda i capi delle nazioni dal sottovalutare la gravità di quanto in questi anni sta accadendo.
Altra emergenza è quella del confronto, del dialogo e della pacifica convivenza tra credenti di diverse religioni, appartenenti a diverse etnie e a diverse culture. La società del XXI secolo è per sua natura multietnica, multiculturale e multireligiosa: e non mancano purtroppo contrasti, divisioni e veri e propri conflitti, anche cruenti. La Chiesa sta cercando
di operare in questa direzione: anche attraverso cambiamenti significativi all’interno delle sue
istituzioni. Molto importante il tema dell’educazione, dell’istruzione e della scuola. In forme diverse, investendo molte risorse umane, culturali e finanziarie, la Chiesa sostiene e promuove l’istruzione e l’educazione cristiana in tutte le comunità.
Legato a questo tema è quello della velocità di linguaggi e stili di comunicazione, che si rinnovano e si aggiornano continuamente. Anche la Chiesa deve adeguarsi a queste nuove esigenze di velocità e di comunicazione, perché fondamentale è anche per lei proprio il canale della trasmissione orale e scritta, attraverso ogni possibile media e social media, del messaggio della salvezza.
Strettamente legati ai temi della pace, della guerra e dell’educazione sono poi quelli della povertà e dell’immigrazione.
Vi è poi il grave tema delle persecuzioni contro i cristiani: ricorrenti, devastanti, sempre più cruente, soprattutto in Asia (Medio Oriente, India, Asia Centrale, Indonesia) e diffusamente anche in Africa: sono migliaia, forse decine di migliaia, i martiri per la fede presso queste comunità.

La grande risorsa: i giovani

La sfida forse più grande, ma anche più bella, è certamente quella dei giovani. La Chiesa è impegnata, sull’esempio di tutti gli ultimi papi, a farsi giovane con i giovani: per farsi carico dei loro problemi e dei loro sogni, per condividere le loro energie, per imparare a parlare con loro e di loro, ma soprattutto per saper comunicare al meglio e con capacità di convincimento ai giovani il Vangelo del Cristo risorto e della salvezza.
La società dei vostri genitori e dei vostri nonni era detta «dei produttori». Si viveva in un contesto sociale in cui quasi tutti avevano un lavoro. I pochi disoccupati venivano impiegati appena possibile perché erano funzionali al sistema e considerati risorse disponibili. Passato un certo periodo, anche loro sarebbero riusciti a trovare un impiego. La società in cui viviamo oggi è detta «dei consumatori». Nella nostra realtà non si parla più di disoccupati, ma di esuberi. Chi è in esubero entra in una sorta di normalità fatta di soprannumero, di non-necessità, di inutilità.
Spesso si ha l’impressione che i giovani siano considerati come merce di scarto ed è anche per questo motivo che molti di loro sono depressi. In un mondo in cui gli anziani sono costretti a recarsi al lavoro (se ce l’hanno), i giovani sono indesiderati, mal sopportati perché visti con diffidenza quali possibili concorrenti, a volte accusati di essere indolenti. Per questo i giovani corrono il rischio di perdere la fiducia in se stessi e non credono più di poter avere il controllo sulle proprie vite, di poter giocare un ruolo nella società. Purtroppo la crisi economica che da anni ha colpito l’Europa interessa in modo particolare i giovani.
Papa Francesco, rivolgendosi a Confindustria, ha chiesto di prestare più attenzione ai giovani che si trovano ad essere prigionieri
della precarietà. Trovandosi infatti a vivere lunghi periodi di disoccupazione, oltre a non avere un onesto salario, essi corrono il rischio di perdere anche la dignità.
La forte flessibilità incontrata nel mondo del lavoro porta i giovani a valutare diversamente la realtà in cui vivono, provando una maggiore percezione del rischio e mostrando una ridotta capacità di programmare il futuro.
L’esperienza della precarietà affolla di molti dubbi la mente dei giovani e limita la loro capacità di immaginare il futuro. Senza un lavoro affidabile, diventa un mito il progetto di acquistare casa, poiché non si è neppure in grado di prevedere non solo quanto sia possibile guadagnare negli anni a venire, ma anche se si sarà così fortunati da avere ancora un lavoro. In molti casi si ritiene anche che sarà molto difficile riuscire a vivere una vita autonoma dai propri genitori.

Contro la cultura dello scarto

Papa Francesco ci aiuta a considerare molte situazioni di fragilità come un vero e proprio «fiume di miseria, alimentato dal peccato», contrapposto all’«oceano di misericordia» che inonda il nostro mondo. Per questo, come sempre del resto, tutti i cristiani devono essere cooperatori di Cristo nella costruzione di un mondo più giusto. Per affrontare i temi di chi si trova in difficoltà ed è indifeso il papa afferma che è necessario contrastare «la cultura dello scarto». Si tratta di una visione del mondo in base alla quale l’uomo contemporaneo legge la situazione di debolezza in cui si trovano embrioni, anziani e disabili e che li porta a desiderare la loro eliminazione fisica.
Bergoglio si è espresso più volte sulla disumanità che induce molti a ritenere che gli embrioni siano «materiale scartabile, e così anche le persone malate e anziane che si avvicinano alla morte».
Egli ha ribadito che la posizione della Chiesa sull’aborto non è un argomento che possa subire modifiche, poiché la vita umana non può essere eliminata e la difesa della vita nascente «è intimamente legata alla difesa di qualsiasi diritto umano», che è sempre «sacro e inviolabile, in qualunque situazione e in ogni fase del suo sviluppo». Gli embrioni non solo non possono essere scartati o uccisi, ma neppure possono essere venduti o usati per la ricerca scientifica. Inoltre il pontefice invita la Chiesa ad accompagnare adeguatamente le donne che si trovano in situazioni molto dure, dove l’aborto si presenta loro come una rapida soluzione.
In una società protesa alla competizione e all’accelerazione del progresso, la cultura dello scarto emargina chi viene considerato come un peso. A farne le spese sono i soggetti vulnerabili che provocano nella gente un senso di paura e di instabilità soltanto perché diversi. Secondo Bergoglio è difficile andare incontro a chi è portatore di disabilità. È assai più comodo ignorare le diversità ed emarginare le persone. Spesso è la sfida stessa di incontrare il diverso che ci spaventa, non considerando che, all’opposto, la diversità è una ricchezza.
Ciò che temiamo nel disabile e nel malato è che essi ci fanno intravedere la debolezza, il dolore, la malattia, realtà con le quali anche noi prima o poi dovremo fare i conti. Tuttavia, rifiutare il rapporto con l’altro in un certo senso è rifiutare di pensare a se stessi nelle medesime condizioni.
È necessario che il cristiano impari ad ascoltare le piaghe del mondo e degli altri andando incontro alle sofferenze dei più bisognosi, dei più umili, dei più indifesi.
Anche gli ammalati interrogano profondamente il vissuto della Chiesa e la sensibilità di tutti gli uomini che saranno chiamati nella loro vita a confrontarsi, e perché no anche a scontrarsi, con le fragilità e le malattie proprie e altrui. La malattia e il dolore umano fanno paura perché suscitano in maniera acuta e pressante l’interrogativo sul senso della propria esistenza.

Ognuno tenta di risolvere la sfida della malattia come può.
Il papa ha anche ripreso il tema dell’eutanasia aiutando a riflettere sul fatto che, spinti da una falsa pietà, oggi molto spesso riteniamo che una persona gravemente ammalata o disabile non possa essere felice. La mancanza della felicità dipenderebbe dall’impossibilità di adeguare la propria esistenza alla visione della realtà imposta dalla civiltà dei consumi. Così l’ammalato e il disabile sono da eliminare o da indurre alla scelta dell’eutanasia perché ritenuti incapaci di realizzare lo stile di vita imposto dalla cultura del piacere e del divertimento.
Così l’uomo contemporaneo mostra di non comprende il vero senso della vita, che comporta anche l’accettazione della sofferenza e del limite.
Tra le persone che la società deve imparare ad accogliere, prima di tutto all’interno delle proprie famiglie, ci sono gli anziani. Così, proprio nel momento in cui il numero degli anziani si è incrementato, la società non si è attrezzata adeguatamente ad accoglierli. Ciò accade perché la nostra società è stata programmata sull’efficienza e sul profitto. Questo modo di concepire i rapporti sociali porta da una parte a scartare e dall’altra a ignorare gli anziani considerati come un peso invece che una ricchezza, quella che Bergoglio considera «la riserva sapienziale e di saggezza di ogni popolo».