Interrogarsi sul senso

I bisogni primari

Gli studiosi suddividono i bisogni umani in primari e secondari o in materiali e materialimateriali: la complessità consiste nello stabilire che cosa sia un bisogno. Generalmente ammettiamo che il bisogno sia un qualcosa che ci muove profondamente dall’interno e che ci spinge a ottenere ciò che ci soddisfa. Certamente il cibo e il sonno sono tra i bisogni umani su cui non si può discutere, perché tutti, in quanto esseri umani, abbiamo necessità fisiologiche. Tuttavia l’uomo non è solo il suo fisico.

I bisogni secondari

I bisogni secondari dell’uomo non possono essere considerati come indispensabili alla pura e semplice sopravvivenza. Tuttavia ciò non significa che l’uomo non cerchi il loro soddisfacimento per migliorare la «qualità della vita», termine ambiguo che spesso sottintende soprattutto il desiderio di soddisfare la propria individualità a scapito delle necessità degli altri. Tra i bisogni secondari possiamo inserire molte urgenze indotte dalla pubblicità: sostituire il cellulare tutti gli anni, guidare un’auto di lusso, cambiare il televisore, vestire alla moda….

I bisogni spirituali

L’uomo constata che non è sufficiente soddisfare i bisogni primari e secondari. Nonostante le comodità che il progresso tecnico pone a disposizione di un pubblico sempre più vasto, nonostante la ricchezza che qualcuno accumula senza badare alle necessità degli altri, è possibile verificare come, al fondo di ogni esistenza umana, permangano gli interrogativi di fondo a cui è impellente dare risposta.
Questi interrogativi sono talmente immersi nel mistero che difficilmente l’uomo riuscirà da solo a trovare risposte soddisfacenti. Proprio lo sforzo di approdare a risposte appaganti costituisce l’intenso lavorio dei bisogni spirituali.

Il problema del male

Quando pensiamo al male ci vengono in mente le esperienze dolorose che segnano la vita di ogni uomo. Tuttavia è bene non confondere la finitudine della creazione, ossia il fatto che il corpo possa essere stanco e affamato o possa contrarre una malattia, con il male morale. Ciò che ha a che fare con la finitudine umana ci fa soffrire, ma ha a che fare col fatto che siamo creature e non semidei né eroi. Può capitare di attribuire la responsabilità dei malesseri fisici a Dio, tuttavia lui è responsabile solo per il fatto di aver creato l’uomo in un determinato modo: l’unico modo per evitare questa realtà è non essere creature. Nondimeno il male è una realtà che mostra un volto tentacolare e si manifesta in molti ambiti della vita. Tutte le religioni si sono interrogate sull’origine del male e hanno tentato di suggerire una soluzione plausibile. Queste le principali risposte:
• Dio è il responsabile del male perché l’ha creato lui;
• esiste un principio del male indipendente da Dio;
• Dio stesso è al suo interno bene e male;
• l’uomo è responsabile del male per qualcosa che ha compiuto sin dall’inizio della storia.
Per il cristiano che crede in un Dio buono, misericordioso e vicino all’uomo, amorevole nei suoi confronti, addirittura a lui prossimo come solo un padre può esserlo, il male è avvertito come un problema ancora più gravoso, ma a cui tuttavia nel corso dei secoli la Chiesa ha cercato di dare una risposta.

Cosa dice l’Antico Testamento

La Bibbia inizia presentando l’opera di un Dio che crea tutto ciò che esiste e, dopo averlo fatto, dichiara che era cosa molto buona. Il male è presentato dall’autore biblico come la conseguenza dell’agire dell’uomo che non ha accettato di vivere in modo corretto la relazione con Dio.
Il capitolo di Genesi 3, che vi invitiamo a leggere, non ha l’intenzione di essere una cronaca, ma ha interesse a ricercare la causa che ha determinato la realtà all’interno della quale l’uomo vive. Ciò che si chiede l’autore biblico è: «Perché l’uomo non è più nello stato in cui fu creato? Perché non è più come lo descrive Genesi 2? Perché l’uomo fa esperienza del male, della malattia, della fatica e della morte?».
Il terzo capitolo della Genesi è un testo molto difficile. Gli studiosi ad esempio si chiedono se Adam (nome collegato con Adamah, la terra) sia un nome proprio o comune, se indichi un uomo che l’autore biblico fa vivere subito dopo la creazione oppure se sia un nome collettivo. Invano cercheremmo nel brano di Genesi 3 l’espressione «peccato originale». È piuttosto l’interpretazione cristiana che ha fatto diventare Genesi 3 la base della teologia del peccato originale.

Dopo il peccato il male si diffonde

L’autore biblico fa tematizzare dal serpente di Genesi la questione che guida la scelta peccaminosa dell’uomo: essere come Dio e avere la conoscenza del bene e del male. Nonostante Dio abbia creato un mondo bello e buono ora l’uomo vive in un mondo brutto: questa realtà è il frutto e la conseguenza della sua scelta. Dio aveva posto l’uomo nel paradiso terrestre, ma come conseguenza della scelta di ribellione si vede costretto a scacciarlo. Da quel momento il mondo sarà segnato dalle conseguenze del PECCATO.
Dopo aver compiuto il peccato, sappiamo che qualcosa è mutato nei rapporti tra l’umanità e la divinità perché l’uomo ha paura di Dio, non vuole stare con lui e si nasconde. Dall’esperienza di Adamo ed Eva in poi, il testo biblico ci presenta un progressivo espandersi del male. A questo episodio segue l’uccisione di Abele da parte di Caino, il peccato che pervade la terra invasa dal diluvio al tempo di Noè, l’episodio della Torre di Babele.
Dunque il male non può essere attribuito a Dio: non si tratta di un’imperfezione della realtà creata, e non è neppure stato creato da Dio, ma dipende dall’uomo (Libro della Sapienza 1.13-14). Il Dio della Bibbia è e rimane il Dio buono, della vita buona e il male è solo insensatezza, è una contraddizione frutto del peccato dell’uomo.

Cosa dice il Nuovo Testamento

Il Nuovo Testamento ci presenta Gesù che lotta con il male: egli non ha evitato di incontrare il male, ma la sua è una vittoria crocifissa. Sulla croce Gesù non neutralizza il male, ma lo vince dal di dentro, lottando con esso. Egli infatti vince passando attraverso il male. Il modello di uomo che viene trasmesso dal Cristo non è quello di un super uomo, che domina il dolore e non s’immischia con chi soffre, ma di qualcuno che si fa prossimo al sofferente. Il cristiano non si trova davanti a un Dio apatico o superiore, ma un Dio che per amore ha accettato, in senso analogico, di soffrire per la sua creatura. Accettando fino in fondo il progetto del Padre, aderendo anche davanti alla croce con il suo sì, è passato attraverso il mistero del male, prendendo su di sé il dolore, il limite e anche l’empietà della storia umana.
Guardando all’esperienza di Gesù, il cristiano comprende che il male può essere vinto. La speranza del cristiano sta nel fatto di aver compreso che il male non è qualcosa di invincibile e che non è voluto da Dio. Il male può essere tollerato e a volte permesso da Dio, ma non è mai da lui desiderato e voluto. Teoricamente, Dio avrebbe potuto creare un mondo in cui il male non fosse neppure possibile. Tuttavia forse questo mondo non sarebbe stato neppure desiderabile perché questa realtà avrebbe comportato un’umanità priva della libertà. Invece il Dio cristiano si rivolge all’uomo con la sua offerta di salvezza, ma questa può essere realizzata solo nella libertà del figlio che accetta la sua adozione.

Dio non è autore del male

Per la fede cristiana Dio non è autore del male: sicuramente quando si tratta di un male morale Dio non c’entra. Secondo Sant’Agostino egli permette il male quando può ricavarne un bene. Nella sua bontà, infatti, non permetterebbe il male se non fosse capace di ottenere il bene.
È quanto accaduto con la messa a morte di Cristo sulla croce. Nell’esperienza del Cristo crocifisso l’uomo ha potuto vedere e contemplare una diversa idea di onnipotenza, un modello totalmente divergente rispetto a quello umano. Dio non ha voluto quel male, ma l’ha vissuto come un totale atto di amore nei confronti dell’umanità. Davanti alla croce l’uomo si aspetterebbe il colpo di bacchetta magica da parte di Dio Padre che interviene per impedire al Figlio di soffrire, o l’atto di imperio di Cristo che scende dalla croce, sbaragliando i nemici e mostrando la potenza e la gloria di cui un Messia doveva essere capace. Invece abbiamo la follia della croce, quell’esperienza del Cristo che va fino in fondo al male e lo vince. Dunque, secondo quanto abbiamo argomentato sino a questo momento, l’uomo che è stato creato buono da Dio ha deciso liberamente di compiere il male. Si tratta di una scelta dell’uomo che ha deciso di andare contro Dio. Tuttavia la libertà dell’uomo, per quanto forte, per quanto dirompente, non poteva giungere al punto di dar vita a un male sostanziale.

La sofferenza nell’Antico Testamento

I testi più antichi all’interno dell’Antico Testamento legano la sofferenza al castigo di Dio per il peccato dell’uomo che viene considerato un’offesa a Dio. Così, dopo la caduta dell’uomo in Genesi 3, entra nel mondo la sofferenza che coinvolge non solo la coppia umana, ma anche i discendenti e tutta la creazione. Il diluvio, un male naturale, può essere considerato come una conseguenza del male compiuto dagli uomini: Dio è così disgustato dall’espandersi del male che decide di cancellare tutta la creazione (tranne un piccolo gruppo).
Abramo inutilmente tenterà di contrattare con Dio la salvezza degli abitanti di Sodoma e Gomorra perché non c’è in quelle città nessun giusto tranne il piccolo gruppo della famiglia di Lot. A più riprese, Israele farà esperienza della sofferenza inviata da Dio a causa delle sue infedeltà (Giudici 2,11ss).
Vissuta come castigo divino per il peccato dell’uomo, per un certo periodo l’uomo biblico ha ritenuto che Dio avesse tempo fino a cinque generazioni per punire il peccato compiuto da un singolo e spesso la responsabilità veniva addossata a tutto il popolo. Questo concetto assumeva ancora più forza se si pensa che, nello stesso periodo, l’uomo biblico non era ancora pervenuto a ipotizzare l’esistenza di una vita dopo la morte. Al massimo si riteneva che ciò che rimaneva dell’uomo dopo il decesso scendesse nello She’ol, un luogo desolato dove il defunto viveva un’esistenza larvata e buia.

La sofferenza dell’innocente

Tuttavia la concretezza della vita di ogni giorno offriva, allora come ora, le necessarie motivazioni per giustificare il sorgere del problema della sofferenza dell’innocente: è sempre stato facile accertare che chi si trova nella sofferenza quasi mai è una persona malvagia, anzi, a volte è un innocente. Che cosa dire davanti alla nascita di un bambino con gravi problemi di salute? Chi ha peccato? Dunque l’uomo biblico, confrontandosi con la cruda realtà, si trova a vivere tra due estremi: non solo la sofferenza è dura da accettare, ma sembra che Dio la assegni secondo canoni del tutto personali, schemi che l’uomo non riesce a comprendere. Esempi della profonda meditazione biblica su questo tema sono le figure di Giobbe e del Servo sofferente. In un contesto in cui si pensava che chi viveva nel dolore dovesse la sua condizione alla sua iniquità, Giobbe afferma di essere completamente giusto, anche se proprio lui deve imparare ad aprirsi alla volontà di Dio.
Gli oracoli del profeta Isaia che ci presentano il Servo sofferente dicono invece che questa afflizione ha un senso e si inserisce nella storia del popolo. Il Servo infatti accetta di soffrire per poter salvare il popolo. Esiste perciò un disegno di salvezza da parte di Dio: il Servo non soffre per colpa dei peccati da lui commessi, ma si offre come sacrificio di riparazione per i peccati commessi dagli altri.

La sofferenza nel Nuovo Testamento

Gesù rifiuta completamente la tesi dell’Antico Testamento che vedeva la sofferenza come il castigo inviato da Dio per il peccato commesso dagli uomini.
Il Vangelo di Giovanni costruisce il capitolo 9 sul tema della cecità sin dalla nascita, ritenuta allora la conseguenza diretta del peccato. Sempre in Giovanni ci viene presentata la malattia che colpisce Lazzaro e che lo conduce sino alla morte: Gesù sostiene che tale sofferenza non è la conseguenza di un peccato, ma della volontà di Dio affinché si manifesti la sua gloria.
Gesù parla di una retribuzione che Dio darà nell’altra vita: è un invito ad andare oltre, a collocare la giustizia retributiva di Dio nell’aldilà e non nell’aldiquà. Nel discorso delle beatitudini (riportato nel Vangelo di Luca e in quello di Matteo) Gesù parla di una beatitudine che sarà attribuita da Dio a chi soffre. La sofferenza, quindi, non è la manifestazione dell’azione di un Dio vendicativo che vuole punire. Gesù poi si fa esempio per tutti soffrendo lui stesso sulla croce.

Ipotesi di senso e letture cristiane del dolore

La fede cristiana si occupa del senso dell’assurdo che suscita nell’uomo la sofferenza, quell’esperienza sensoriale devastante che non dipende da noi e che spesso subiamo non riuscendo a comprendere.
È accaduto spesso in passato che abbia prevalso l’esaltazione del dolore in quello che viene chiamato anche dolorismo, secondo il quale chi soffre dovrebbe essere felice perché si trova più vicino a Dio. Il cristianesimo non può semplicemente sposare la linea di Giobbe, che spiega il dolore ponendolo nel più ampio mistero di Dio.
Per procedere nella nostra argomentazione facciamo riferimento alla lettera apostolica Salvifici doloris in cui papa Giovanni Paolo II afferma che il dolore e la croce di Cristo hanno senso se inserite nel mistero pasquale. Con questo pensiero il nostro ragionamento si arricchisce di un elemento in più. Sappiamo che la sofferenza di Cristo sulla croce è anche dovuta al male morale. Tuttavia questo non è sufficiente a chiarire il problema del dolore innocente, esperienza eloquente che la sofferenza fisica non è sempre conseguenza del peccato. Dio inoltre si può servire del dolore per ottenere un bene maggiore.